di N.H. Don Claudio Bonvecchio, Magistrato Supremo alla Ragione
Essendo lapalissiano che il comunicatore è – quasi sempre, anche se non sempre – una persona, è indubbio che non è né lecito né possibile separare la comunicazione da chi ne è, contemporaneamente, il soggetto e il fruitore: l’essere umano, nello specifico. Interrogarsi, sinteticamente, sull’antropologia che sta alla base dei modelli comunicativi principali che si sono – storicamente – succeduti, consente quindi di comprendere meglio e più approfonditamente ciò che motiva entrambi (il soggetto e il fruitore): assodato che non è possibile staccare l’uno dall’altra e viceversa. Conviene, perciò, prenderli in esame, almeno nelle loro forme emergenti fondamentali.
Così, se rivolgiamo l’attenzione alla comunicazione nel mondo antico troviamo che è tutta circoscritta nell’ambito della comunità, dove il modello ideale di comunicatore (e quindi di uomo) è il saggio. Saggio che, a secondo dei casi, può essere druido, sacerdote, sciamano, filosofo o cortigiano. A lui è affidato il compito di conferire – con la sua presenza, con le sue azioni e con i suoi insegnamenti – un senso alla comunità. Egli è, infatti, colui che custodisce – insieme alle Tradizioni politiche, mitiche e religiose – l’arte della scrittura conferendo, con ciò, legittimità al potere reale. All’inizio, tale potere era esercitato, personalmente e in nome del divino, da lui in qualità di rex-sacerdos, in seguito, verrà da lui attribuito al sovrano tramite la consacrazione che di tale potere (e dell’intera comunità) era il collante. Ciò rendeva il sovrano custode della memoria del gruppo sociale e di tutte quelle procedure che consentivano – in virtù della sua “arte magica” e del suo potere sovraordinato – di inserire il singolo e il gruppo stesso nel contesto del cosmo: e viceversa. Il sovrano era, insomma, colui che metteva in contatto – tramite procedure comunicative particolari – gli uomini con gli Dei e con la natura. Facendo questo si poneva come il tramite con la Totalità e, nel contempo, consentiva alla comunità di acquisire un barlume di coscienza di sé.
Nel mondo cristiano-medioevale, la comunicazione sarà ancora tutta all’interno della comunità. In essa chi comunica è l’ecclesiastico e, ai suoi inizi, il monaco. Quest’ultimo, dal conto suo, non si discostava (se non nelle apparenze) dal saggio antico cui, spesso, univa la funzione di consigliere del sovrano: come è stato Alcuino (consigliere di Carlo Magno) o l’arcivescovo Rainaldo di Dassel, solo citare alcuni esempi, a caso. L’ecclesiastico non doveva più unire cielo e terra, ma mediare tra il “popolo di Dio” e il Cristo, edificando – nella Gerusalemme Terrena – la Gerusalemme Celeste: ossia la comunità dei Santi, a cui tutti gli uomini figli di Dio, se lo volevano, poyevano appartenere. L’ecclesiastico-monaco-comunicatore rappresentava, ancora, il custode della scrittura e l’interprete della parola, ma entrambe dovevano esaltare il ruolo della Rivelazione e, con essa, quello dell’uomo nell’opera cristiana e redentrice. Nella comunicazione con Dio – mediata dall’ecclesiastico-monaco – l’uomo sviluppava la coscienza di essere figlio di Dio ed in questa coscienza si esaltava il suo ruolo di partecipe alla totalità: non a caso, Cristo viene chiamato il “Figlio dell’Uomo”. La comunicazione, in questo caso, era l’esaltazione della coscienza dell’uomo concepito come la Totalità. La sua essenza era la spiritualità e andava nella direzione di mostrare all’uomo ciò che deve fare per essere quello che è: ossia una Totalità che si esprime nella religione.
Nel mondo rinascimentale, la comunicazione si identificherà con la figura del filosofo-mago che, di volta in volta, si manifestava come il sapiente, lo scienziato, il medico o il consigliere del sovrano. La sua più importante funzione era quella di mediare non più tra l’uomo e Dio ma tra l’uomo e una natura concepita come vivente, animata e dotata di coscienza – l’Anima Mundi – che esprimeva una Totalità cui l’uomo non poteva fare a meno di partecipare. Con ciò, la comunicazione non si distingueva dall’esaltazione del microcosmo. Non si distingueva dall’essere umano che si poneva come l’artifex del rapporto con il cosmo e con le molteplici forze che ne formano il reticolo, arricchendone e potenziandone le virtutes tramite tale molteplicità. In questa azione in cui l’idea di comunità si allarga sino a coincidere con i confini del cosmo, domina ancora – come già nei modelli precedenti – la compresenza della capacità intuitiva e di quella razionale: dell’inconscio e della coscienza. L’epicentro di questa visione del mondo sarà la Firenze medicea e la Casa dei Medici ne sarà lo spiritus rector.
Nella modernità – ossia nel processo plurisecolare che è giunto pressoché sino a noi – il comunicatore era il savant prima e in seguito colui che poneva la ragione in primo piano: lo scienziato nel senso più ampio del termine, quindi anche lo scienziato dei fatti politici e sociali. La sua funzione era quella di essere il tramite tra l’uomo ed una Totalità variamente identificabile, ma sempre meno connessa ad una dimensione comunitaria e più ad una dimensione sociale. Il savant prima e lo scienziato poi ambivano – dilatando razionalità, nozioni e conoscenze – di essere loro stessi la Totalità facendo forza sulle coscienze: tramite la capacità, faustiana, di investigare, di capire e di conoscere. Ma questa totalità razionale doveva essere educata e sviluppata. Si è sviluppata, allora, la convinzione (o, meglio, l’illusione) che la comunicazione – nella prospettiva di un processo tecnologico senza fine – sia esclusivamente pedagogia e che il comunicatore (l’uomo, in ultima analisi) altro non sia che il pedagogo che deve plasmare l’umanità facendone una società razionale e tecnologica.
Di conseguenza, non esisteva altra comunità che la società di coloro che si riconoscevano nella ragione ed in essa vedevano la possibilità di edificare il nucleo portante della futura realtà. Ha preso, così, corpo un gruppo sociale o un insieme di gruppi sociali fondati sulla scelta razionale di modelli, standard, di vita e di comportamento che dovevano essere insegnati e perseguiti. Essi si fondavano su sé stessi. Erano autoreferenziali, non abbisognavano di una legittimazione esterna. La coscienza fattasi ragione diventava un principio autoriflettente, mentre il comunicatore – il savant, lo scienziato – impersonava lo specchio di questa coscienza: specchio in cui prenderà sempre più corpo l’immagine della opinione pubblica, tanto anonima quanto potente. Va da sé che – in questo contesto – la figura del comunicatore cede la sua centralità al processo della comunicazione e alle tecniche che, via via, lo supporteranno. Tale processo – che inizierà ad accelerarsi a partire dalla seconda metà dell’Ottocento – raggiungerà il suo culmine nella seconda metà del Novecento con l’avvento della televisione, dei computer, dei telefoni cellulari, della rete, dei satelliti e così via.
Nella post-modernità, ossia nella nostra epoca, il comunicatore – l’uomo della comunicazione – è l’operatore della comunicazione, la cui funzione è attuare, a livello globale, la progressiva dilatazione della comunicazione stessa. Così facendo, la società viene a sostituirsi completamente alla comunità, mentre la coscienza del singolo si trasforma in quella della società. Ossia, la società si muta – nella comunicazione – in coscienza collettiva. In questo passaggio, centrale – come si è, già, ricordato – è stata la funzione dell’uomo tecnologico che, essendo del tutto deresponsabilizzato e funzionalizzato, si è confuso con la tecnica, facendo sì che comunicazione, tecnica, coscienza e società siano una cosa sola. Così, la comunicazione – con un cambiamento radicale e decisivo – muta il suo significato originario. È totalmente estranea alla comunità al pari dell’uomo che la esprime, il quale comunica unicamente, in un gioco di rifrazioni, il nulla della società. È implicito che tale gioco di rifrazioni – che esprime la società fattasi comunicazione o la comunicazione fattasi società – tende ad espandersi all’infinito. È un infinito fatto di “scatole vuote” cui corrisponde il venir meno dell’uomo, totalmente esonerato dal ruolo di mediatore nei confronti della Totalità che – di volta in volta – era stato rappresentata dal cosmo, da Dio, dalla natura e dalla coscienza. Ricorda l’antica immagine dell’uroboro – il serpente che si morde la coda – segno di una Totalità da cui l’uomo è escluso ma da cui è divorato
Si può, allora, concludere – sulla scorta di questo breve excursus – che oggi la divaricazione tra la comunicazione e l’uomo è massima: per non dire che si trovano in aperta rotta di collisione: come si evince dai film e dalla letteratura di denuncia o di fantascienza. Il che produce un effetto di ritorno di non poco conto sul problema della libertà: ammesso che esiste una imprescindibile collegamento – nella comunicazione – tra uomo e libertà.
A fronte di questa drammatica (per l’uomo) condizione, si pone la necessità di una netta inversione di tendenza. Inversione di tendenza che ristabilisca il primato dell’uomo e di una corretta comunicazione, senza la quale non ci può essere percezione della Totalità: di quella pienezza spirituale che alimenta la Vita in tutti i suoi aspetti. Si pone l’ineludibile necessità di tornare al modello rinascimentale, inaugurando una Nuova forma di Umanesimo. Un Umanesimo che tenga conto dell’uomo e della natura, dello spirito e della ragione per recuperare le tracce dell’antico cammino (perduto) verso la Totalità e verso una comunità fondata sull’deale. In questo Nuovo Umanesimo, le persone devono imparare a comunicare con sé stesse e con le altre, recuperando l’idea di comunità di arti e mestieri e, così, riappropriandosi dell’antica identità: drammaticamente perduta. Devono, insomma, utilizzare l’antico per ripensare il nuovo. Per raggiungere questo scopo non è più necessario né un rex-sacerdos né un filosofo-mago: figure che, per altro, non esistono più. È, piuttosto, necessario recuperare l’idea (e la figura) platonica e Medicea del filosofo-re che, in virtù delle prerogative assegnatigli dalla storia, si ponga come il motore mobile di questo sogno che può e deve diventare realtà. È necessaria una guida che – in nome del retaggio da cui discende – senta la missione di indicare, con pacata fermezza, il cammino da intraprendere e la meta da raggiungere. Oggi, Ottaviano De’Medici – in qualità di Principe di Toscana – può rappresentare questa figura e indicare come possa farsi strada un Nuovo Umanesimo che riproponga i Fasti Medicei ridestando le coscienze sopite, spronando i pigri e confortando chi crede in un futuro migliore e nella possibilità di una comunità di spiriti nobili. Mai come oggi l’antico detto “Post fata resurgo” (“Dopo le disgrazie del destino, mi risollevo”) – riferito alla mitica Fenice – chiede di diventare forza, speranza, impegno, volontà e coraggio. Mai come oggi la visione di una comunità di uomini liberi e in grado di comunicare, in un progetto globale e ecosostenibile, la loro idea di liberà è vitale. Mai come oggi – e sono le illuminate e assolutamente condivisibili parole di Ottaviano De’Medici, Prncipe di Toscana – è imprescindibile la visione di una comunità di uomini liberi in cui il posto centrale sia occupato dalla bellezza perché “solo la grande arte è capace, oggi, di cambiare l’animo dell’uomo”.
In questo si compendia la visione, grandiosa, del Nuovo Umanesimo Mediceo.