di N.H. Don Claudio Bonvecchio ( Magistrato Supremo alla Ragione)
Lettera di Risposta all’Enciclica “Indagine sui Valori Umani”
L’etimo delle parole – come ricordava Martin Heidegger – cela il loro significato più puro e più profondo. È a questo significato che ci si deve rivolgere se si vuol comprendere l’esatta valenza spirituale intessuta nella parola e, contemporaneamente, la strada per renderla nostra o – se il caso lo richiede – per rivitalizzarla: per darle nuova vita sulla base del suo arcaico, originario, valore. La società moderna invece ha, colpevolmente, dimenticato il senso che ogni etimologia racchiude, preoccupata semmai di inventare nuovi termini, di storpiare quelli antichi o – persino – di assoggettarle all’obbrobrio del “politicamente” corretto.
Queste è avvenuto – con una particolare acrimonia, ideologicamente coltivata – per il termine “nobilitas”: trascurata, dimenticata o “messa all’indice” come il ricordo di un lontano passato da dimenticare in quanto ritenuto (erroneamente) espressione di tracotanza, di albagia, di classismo o, ancora peggio, di antidemocrazia. Ma, peggio ancora, “nobilitas” è stata ed è usata – nella versione più comune e italianizzata a livello di aggettivo – come supporto consumista per un prodotto da pubblicizzare. Si può così riferirsi a un vino dal “nobile abboccato”, al “nobile” sentore di un profumo o al “nobile” comportamento di un politico che elimina l’avversario senza sommergerlo di male parole. E così via in un “ruere in peius” di tacitiana memoria.
Andiamo allora – per non scadere nel banale – agli inizi del termine “nobilitas”. Nobilitas deriva dal latino “nobilem/gnobilem”, a sua volta probabilmente collegato al verbo latino “noscere/gnoscere” che significa “conoscere”. Da ciò discende, ab origine, il significato di “nobile” come persona conosciuta per qualcosa o per qualche comportamento particolarmente insigne e degno di nota. La “nobilitas” altro non era, dunque, che la reiterazione nel tempo di atti, comportamenti, propensioni, atteggiamenti di persone che, per tale motivo, venivano ritenute insigni sia nella opinio communis, sia dalla saggezza di chi rappresentava, in temporalibus, la volontà divina come fons honorum. Quando la reiterazione avveniva, con costanza, nella storia di un nucleo famigliare la “nobilitas” diventava un carattere proprio e indelebile – sino a prova contraria o per decisione sovrana – di quella famiglia. Non a caso, le più nobili famiglie romane esponevano nella loro domus le immagini dei membri che, per i loro comportamenti insigni, avevano reso insigne la gens: la famiglia.
Come già rilevato, questo status – che nei secoli, con alterni momenti – ha contraddistinto la “nobilitas” individuale e famigliare oggi è dimenticato, trascurato, deriso o ridotto a pratica ex adiuvantibus del conformismo e del consumismo. In una società dove l’avere ha la priorità sull’essere – come rilevava Erich Fromm – essere insigni coincide con l’immagine pubblicata veicolata dai mezzi di comunicazione di massa. “Insigne” è colui che possiede più denaro, “insigne” è colui che frequenta i talk show televisivi, possiede macchine potenti, viaggia su aerei privati e fa continuo sfoggio di una ricchezza ostentata. Oppure, è colui che riesce, con abilità, a vendere la propria merce: che sia una merce politica, economica, professionale, reale o virtuale è di poco importanza. Certo, non è questa la “nobilitas” che piaceva ai romani, ai cavalieri medioevali – qualunque fosse il loro credo religioso – ai grandi intelletti che hanno illuminato il Rinascimento Mediceo, ai militari, agli statisti, agli scienziati che nel Barocco, nell’Illuminismo, nell’Ottocento e anche nel Novecento sono stati i rappresentanti dei valori eterni su cui si è sempre fondata la qualifica di “insigne”. E neppure la falsa nobilitas odierna è gradita a chi crede, fermamente, che sia necessario – come scriveva Kant – un “supplemento d’anima” per affrontare il mondo in cui viviamo.
Bisogna, dunque e di conseguenza ricreare la “nobilitas” nel suo più autentico significato come rimedio per un modernità – o postmodernità – che sta, a grandi passi, lavorando per la distruzione dell’Umanità o per ridurla ad una massa amorfa di servi sciocchi senza dignità. Bisogna, con grande spirito di sacrificio e con altrettanto grande tensione spirituale, impegnarsi per comprendere che il carattere “insigne” nasce dalla testimonianza di ciascuno nel proprio campo d’azione, nel proprio lavoro, nella propria famiglia, nella vita sociale e politica: se si intende percorrere questa strada. Essere “insigni” – meglio ancora se nella continuità della propria famiglia, se ce ne sono le circostanze – equivale a far propria la dignitas che richiamava Marsilio Ficino e a introiettare l’immagine di quell’indomito cavaliere che balza dal bulino del Dürer nella celebre icona de “Il cavaliere, la morte e il diavolo”.
È l’immagine di un cavaliere che lotta contro le lusinghe che seducono e avvincono gli uomini, troppo spesso dimentichi della loro vera natura: del loro status e della loro “grandezza” umana. Una dimenticanza che genera ansie, timori, preoccupazione e disagi, uniti alla sensazione di aver perso la propria identità. Ma un uomo privo di identità è un essere “assediato” da una strisciante disperazione e da una sottile angoscia. Entrambe producono la penosa e pericolosa sensazione di essere “senza centro”, di essere divorati da un nulla incombente: da un caos che tutto travolge senza un punto fisso a cui ancorarsi. D’altra parte, l’Occidente è oramai da tempo, privo di un centro. Da tempo, è una dantesca “terra desolata” in cui chi vi abita è esposto al rischio di avere come unici compagni di viaggio solo la finitezza dello scorrere del tempo e le lusinghe materiali: metaforicamente leggibili come la finitezza della morte e le insidie del diavolo. Ad entrambe si può soggiacere o ribellarsi. Il discriminante è la scelta o, ancora meglio, la decisione di scegliere. Ed è la scelta, forte e coraggiosa, che rende insigne, “nobile” – come il cavaliere düreriano – un uomo.
Essa rappresenta il richiamo – o meglio la stringente necessità – di un nuovo Rinascimento. A questo Rinascimento – a cui spesso fa riferimento con alti accenti SAR Ottaviano de’Medici di Toscana – siamo chiamati. Ma questo Rinascimento – Mediceo nella sua storica Tradizione – richiede il coraggio e la volontà di andare sino in fondo, combattendo per ricostituire un nuovo centro: in sé stessi e nella società. Un centro da cui possano irradiarsi i mille raggi di una rinascita umana, civile, culturale, politica, ecologica e spirituale per una Umanità nuova e diversa e per uomini che nei loro comportamenti “insigni” facciano rifiorire l’albero secco della “nobilitas”.