di N.H. Don Claudio Bonvecchio
Ragione e sentimento non possono e non debbono essere divisi. Ma in realtà lo sono stati e, ancora, lo sono.
La divisione introdotta dal filosofo Pascal tra l’esprit de finesse che identificava con il cuore – ossia con il sentimento e l’intuizione – e l’esprit de geometrie (la ragione) si radicalizzerà nel 1600 con Cartesio: uno dei più grandi e seguiti filosofi dell’epoca moderna. Cartesio, infatti, introdurrà l’assoluta separazione tra la res cogitans e la res extensa: dove la prima si può considerare come la realtà psichica, intuitiva e sentimentale e la seconda è la realtà materiale. La realtà materiale che la sola ragione può, fruttuosamente, investigare. L’esito storico, è stato – auspice Cartesio – la scissione tra l’universo materiale e quello spirituale. Così, l’uno sarà considerato come il regno del casuale e del precario e l’altro come il regno, matematico, del certo e dell’ordinato: in una parola, della scienza. È possibile ipotizzare – con una certa attendibilità – che dati da questo momento la decadenza del pensiero occidentale. Decadenza che sarà – invece e artatamente – presentata come “progresso”: anzi, come “il progresso”.
Ora, per un aspetto, il pensiero logico-discorsivo (la ragione) ha consentito uno straordinario sviluppo della scienza e della tecnologia, un miglioramento delle condizioni di vita e una più alta visione dell’Io individuale. Per l’altro, però, ha espunto – se non confinato in campi secondari o eliminato definitivamente – ogni conoscenza intuitiva, ogni conoscenza radicata nel sentimento, ogni conoscenza della Totalità: ogni conoscenza realmente umana. Si è, di conseguenza, affermata l’assoluta priorità della ragione che ha iniziato a pensarsi come l’unica forma di pensiero possibile. Si tratta di un pensiero che – auspicato, promosso e attuato dall’Io individuale – ha iniziato ad autonomizzarsi sino al punto limite di far coincidere la centralità dell’uomo con la centralità della ragione: con la sua assolutezza. Si è, pertanto, attivato, nell’uomo, un pericoloso meccanismo autodistruttivo che – nel mentre rendeva del tutto autoreferenziale il pensiero razionale (la ragione) – ha fatto dell’uomo il suo automatico esecutore: il suo servo sciocco e felice di dover servire.
In virtù di questo ruolo subalterno, l’uomo l’occidentale ha perduto (e perde) – progressivamente – ogni contatto con la natura, con la sua interiorità, con la sua spiritualità, con la sua emotività e con la sua istintualità. In questo modo, nega, insomma, sé stesso e la possibilità di un organico rapporto con il Divino e con tutto quanto lo circonda. L’uomo si è, dunque, trasformato in un essere razionalmente procedurale, rinunciando alla propria umanità. Mentre il pensiero razionale si è trasformato in una tecnologia applicata all’essere vivente, l’uomo si è, quasi inconsciamente, identificato con la macchina: sino a diventare – senza rendersene conto, senza volerlo e senza saperlo – un automa o un replicante.
In questo modo, l’uomo/macchina ha rifiutato, negato, neutralizzato ed omogeneizzato realtà spirituali, in passato, diverse ma sempre compatibili, omologando e pianificando il mondo su livelli standardizzati. Ne è derivato, per gli uomini, l’affermarsi di un consumismo esasperato e l’assunzione di stili di vita edonistici e di modelli di comportamento estranei al loro pensare tradizionale, al loro sentire e al loro linguaggio. Si comprende, così, il trionfo del relativismo e del nichilismo – tanto laico che religioso – che, a sua volta, si è rivelato veicolo di precarietà, di ansie, d’insicurezze, di crisi di identità: moltipliche inarrestabili di instabilità sociale, di depressione, di malcontento, di conflittualità e di violenza. È in questa intrinseca debolezza del presente che si inscrive un abbrutimento che – ben lungi dal risanare una umanità ferita e delusa – è destinato a produrre o un aumento esponenziale della signoria repressiva della società “comunicativa e globalizzata” o l’affermazione di una situazione caotica ed incontrollabile. Una situazione in cui l’uomo, come ricordava Hobbes, potrà diventare “un lupo per gli altri uomini”.
Si impone, allora, la necessità – imprescindibile – di un radicale mutamento di rotta e di scelte decisive. Mutamento di rotta e scelte decisive che spingano quegli uomini che, più di altri, si sentono cittadini del “mondo del cuore” e di “quello della ragione” a vivere un “impegno per la vita”. È l’impegno che coincide con un Nuovo Umanesimo. Un Umanesimo che si può, a pieno titolo, chiamare Mediceo perché proprio da Firenze, sotto l’auspicio dei Medici, ha preso corpo quell’ideale di Uomo Totale che – nel pieno equilibrio di sentimento e ragione – filosofia, arte, letteratura, musica, religione hanno proposto al mondo. E che il mondo ha accettato: almeno sino a quando questo equilibrio non è stato spezzato.
Il Nuovo Umanesimo Mediceo vuole ricomporre questo equilibrio, vuole riannodare gli antichi fili spezzati. Ovviamente, il Nuovo Umanesimo Mediceo è ben lontano dal perseguire il disprezzo della ragione e l’esaltazione del sentimento. Vuole, semmai, che entrambi siano i piatti, in perfetto equilibrio, della bilancia della Vita. Vuole che la ragione sia il giusto strumento affinché il sentimento non si perda nei meandri di una emotività sconfinata e il sentimento sia il severo correttivo di una ragione che non ha titolo per pensarsi e porsi come una nuova, egoistica, divinità. Il Nuovo Umanesimo Mediceo ha l’ardire – utopico e reale, come i sogni – di chiedere agli uomini del Terzo Millennio se non vale la pena impegnarsi per realizzare quell’incomparabile modello rappresentato dall’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci. Un Uomo in cui il Tutto (il Macrocosmo) e la parte (il Microcosmo) si compenetrano, vicendevolmente. Lo scopo è salvare l’Umanità dalla propria autodistruzione, credere, nuovamente, al sole del cuore e alla luce della ragione e ridare la speranza alle generazioni future.